“Come è possibile che il dolore diminuisca nel momento in cui somministro un bicchiere di acqua fresca che il paziente crede sia un potente farmaco antidolorifico?”
Qual è il meccanismo sotteso a questo fenomeno? Sciamanesimo? Mmmh. Condizionamento psicologico? Ni.
La parola chiave è una sola: PLACEBO.
Sì, quel placebo spesso considerato alla stregua di un imbroglio. Mi spiego meglio: in campo farmaceutico, perchè un farmaco venga messo in commercio, deve superare un certo numero di passaggi prima che ne venga dichiarata la reale efficacia. Uno di questi corrisponde al confronto del suo effetto rispetto a un trattamento placebo per l’appunto. O shame, richiamando la terminologia spesso usata nel lessico scientifico. Faccio finta di somministrare un farmaco. Vediamo cosa succede. Finto.
Quel placebo che spesso viene considerato un tipo di approccio da cui differenziarsi. Perché una terapia sia efficace deve dimostrare di funzionare più di un trattamento placebo.
Quel placebo, infine, che spesso viene ricondotto a un semplice condizionamento psicologico e relegato ad arte espressa da sciamani, imbonitori, maestri dell’ipnosi.
Come ci ha spiegato il Dr. Fabrizio Benedetti nel corso che ha tenuto per noi un mesetto fa, l’effetto placebo nasce effettivamente da lì, dagli antichi culti tribali, dai riti di iniziazione cui i giovani si sottoponevano superando prove anche potenzialmente mortali, di sicuro impegnative, pur di essere considerati adulti. Il tutto senza percepire fastidio, dolore, stanchezza o altro.
Qual è la chiave del meccanismo?
Ce lo spiega di nuovo Benedetti in questo video: è l’aspettativa da parte del soggetto che lo riceve, è “ciò che mi aspetto di ottenere in cambio”. È la modalità con cui viene portato avanti l’atto del “rituale” terapeutico.
La differenza rispetto a ciò che si credeva in passato, però, sta nella letteratura scientifica più recente. La ricerca contemporanea, di cui Benedetti rappresenta il massimo esponente, ha dimostrato come, riuscendo a creare un’aspettativa positiva sul paziente, si determinano importanti modificazioni neurofisiologiche.
Si è fatto cioè un passo avanti: dopo aver ormai universalmente accettato l’efficacia del placebo, si è passato a scoprire come questo effetto sia reale, neurofisiologico, enzimatico. Misurabile.
E come, soprattutto, rispetto all’utilizzo di farmaci specifici, porti ad ottenere lo stesso, o addirittura un migliore, risultato in termini di riduzione del dolore, percezione di fatica e livello di prestazione offerta.
Perché allora si stenta ancora a inserirlo con consapevolezza nel proprio arsenale terapeutico?
Sappiamo ormai tanto sul dolore e sui meccanismi che lo regolano, parliamo con sicurezza e confidenza ai nostri pazienti di inibizione discendente, wind-up, dolore nocicettivo, neurogenico e neuropatico. Partecipiamo a più di un corso incentrato su come spiegare al paziente il dolore cronico, sulla comunicazione relativa ai quadri di sensibilizzazione centrale. Sappiamo che l’esercizio terapeutico dosato è un alleato fondamentale nel trattamento del dolore e che l’attività aerobica stimola la produzione endorfinica.
Ma come mai allora l’espressione “Terapia del Dolore” significa ancora, prima di tutto, cocktail di farmaci? Cosa sappiamo dire dell’effetto placebo? Quanti di noi possono affermare di conoscerlo veramente? Quanti di noi fisioterapisti sanno che l’effetto placebo rappresenta un’arma in più, talmente efficace da consentire non tanto l’abolizione di farmaci analgesici (oppioidi), quanto la riduzione considerevole della loro assunzione, anche a lungo termine? Quanti di noi lo inseriscono nelle proprie proposte terapeutiche? Quanti lo sanno sfruttare?
E infine, arriveremo mai a imparare a usare bene l‘effetto placebo senza considerarci imbroglioni?